Non solo spending, ma nuove idee

Data di pubblicazione: 03 OTT 2012
La PA richiede un piano capace di ridisegnare la gestione dei servizi pubblici. E il ruolo del FM può essere decisivo. Ne parliamo con Claudio Levorato.

di Mariantonietta Lisena

Nella Pubblica Amministrazione non solo c’è spazio per accogliere il FM, ma anche le possibilità per realizzare grandi progetti in grado di avere ricadute positive su tutta l’economia. Purtroppo esiste anche un blocco culturale che sbarra la strada a questa evoluzione, come ci racconta Claudio Levorato, presidente di Manutencoop Facility Management
Si può fare del vero Facility Management nella Pubblica Amministrazione?
Sì. Se ancora non è stato fatto è solo per la mancanza di una reale volontà in proposito e di strumenti adatti. E questo malgrado si tratti di una strada molto vantaggiosa per la PA, dato che le consentirebbe di rendere flessibili molti dei suoi enormi costi, aprendo la via a una loro diminuzione permanente nel tempo. Ogni Amministrazione potrebbe infatti seguire i diversi cicli economici, adattandosi velocemente ad un clima che magari, come adesso, impone di realizzare maggiori risparmi. E potrebbe farlo senza dover per forza agire sui costi fissi, per cui in maniera molto meno traumatica.
Qual è allora il freno a questa evoluzione?
Non è diverso da quello che riscontriamo spesso anche nel privato: la volontà di tenere al proprio interno delle funzioni erroneamente giudicate come sensibili, per l’infondato timore di dare troppo potere alla società di FM cui ci si affida. Si tratta di un problema di pigrizia culturale. Le funzioni che verrebbero cedute non sono sensibili, se non per chi le ricopre attualmente e vuole mantenerle solo per questioni di prestigio e potere.
Abbiamo poi un grande problema strutturale e organizzativo. Pensiamo ad esempio agli immobili delle PA: si possono fare provvedimenti per stabilire che debba essere utilizzato meglio lo spazio, ma alla fine hanno poco effetto dato che non esiste una visione e una gestione unitaria del patrimonio immobiliare. C’è troppa frammentazione e c’è una netta divisione tra chi deve gestire il patrimonio e chi poi effettivamente lo utilizza. E questo porta a situazioni paradossali con PA che si trovano a pagare degli affitti mentre nel patrimonio pubblico ci sono interi immobili inutilizzati.
Sono problemi come questi che stanno bloccando la strada all’evoluzione della PA e che in questo campo ci fanno essere in forte ritardo rispetto al resto d’Europa.
Una più corretta gestione dello spazi, secondo lei, potrebbe perciò portare grandi vantaggi.
Abbiamo condotto un’analisi del patrimonio pubblico gestito nell’ambito della convenzione Consip. Si tratta di 3.600.000 metri quadri di uffici, per metà dell’amministrazione statale e per l’altra di quelle locali. Nel 50% di questo spazio abbiamo rilevato un indice di efficienza inferiore al 40% e un indice di presenza di quasi 100 mq a dipendente. Nella nostra azienda, tanto per fare un esempio, è di 20 mq a persona e forse è già sopra media (n.d.r dai dati del Benchmarking di IFMA Italia, in termini di area di lavoro, il dato medio è pari a 10,78 mq).
È evidente che esistono enormi margini di miglioramento nello sfruttamento dello spazio, con tutti i risparmi che ciò potrebbe comportare.
Cosa si può fare per agire su questi sprechi?
Molto, volendo. Se la  PA affidasse in gestione ad operatori del facility le singole postazioni di lavoro, con tutta la miriade di servizi ad esse collegati già potrebbe togliersi un enorme peso dalle spalle. Avevamo anche presentato a Consip un progetto che andava in questa direzione. Con una formula del genere basterebbe che le Pubbliche Amministrazioni indicassero al gestore del servizio selezionato il numero di persone che necessitano di una postazione e poi sarebbe il gestore stesso a premurarsi di tutto il resto, dal trovare lo spazio adatto al renderlo idoneo e a gestirlo nel tempo. E, soprattutto, la PA pagherebbe solo per le postazioni di cui di volta in volta ha realmente bisogno, portando al massimo quella flessibilità di cui parlavamo prima.
Anche perché nella postazione di lavoro è compreso praticamente l’intero ammontare dei servizi necessari al funzionamento di un’organizzazione.
Esatto. Dire, come spesso si fa nel settore pubblico, che un dipendente costa 35.000 euro all’anno è una stima grossolana, che tiene conto solo degli stipendi, mentre ogni lavoratore in realtà costa molto di più a qualunque azienda. Anche solo recapitargli quei 35.000 euro ha dei costi.
Un progetto sullo stile di quello proposto da noi, per come è concepito, porta anche ricadute positive che vanno ben oltre la PA, perché coinvolge anche molte imprese esterne e ne stimola la crescita.
Molto si potrebbe fare anche solo in termini di miglioramento dell’efficienza energetica del patrimonio pubblico.
A proposito di questo abbiamo recentemente stimato che interventi da 20 miliardi di euro su 85 milioni di metri quadri di scuole e uffici possono generare un risparmio annuo di 630 milioni. Si tratta di un investimento notevole, è evidente, ma non deve essere per forza finanziato con soldi pubblici: possono farlo i privati. Questo, tra l’altro, porterebbe subito un incremento di più dell’1% sul PIL, che negli anni decrescerebbe magari fino allo 0,4%, ma stiamo comunque parlando di un effetto che durerebbe almeno una decade. Per cui avremmo anche un impatto positivo sull’economia nazionale. Sarebbe poi il privato, chiaramente, a beneficiare di quei 630 milioni di risparmio, ma avremmo anche notevoli ricadute per tutta la comunità: un patrimonio immobiliare pubblico efficiente dal punto di vista energetico e 630 milioni in meno di investimenti all’estero per comprare energia che andrebbero sostituiti con attività ad alto contenuto di lavoro svolte in Italia. Un impatto perciò estremamente positivo in termini di economia e di occupazione che tra l’altro durerebbe nel tempo. Un progetto del genere messo in campo dalla PA farebbe poi da traino e verrebbe imitato da tanti altri gestori di patrimoni immobiliari, più o meno ampi.
Un investimento di 20 miliardi però necessita di un ritorno ben maggiore di 630 milioni annui per divenire appetibile.
Certo, richiederebbe almeno il doppio, ma ci sono tutte le possibilità per garantirlo. L’incremento citato in precedenza dell’1% sul PIL porta nelle casse dello Stato una cifra pari circa allo 0,5% del PIL sotto forma di tasse e contributi. E si tratta di un’entrata totalmente gratuita, perché la PA non ha dovuto fare alcun lavoro o investimento per generarlo. Questa cifra potrebbe perciò essere impiegata in misure compensative di carattere fiscale per assicurare al privato un ritorno soddisfacente del suo investimento iniziale di 20 miliardi.
Insomma, si profilerebbe uno scenario in cui davvero vincono tutti, realizzando inoltre un’operazione un po’ diversa da quelle attuate finora e che hanno depresso l’economia.
Qualcuno potrebbe dire che il Governo ha voluto agire come si fa con un’azienda in crisi, pensando prima a “fare cassa” e poi alle misure per riguadagnare competitività.
Sì, ma non stiamo parlando di un’azienda, bensì di un intero Stato, che tra l’altro è inserito in un contesto di crisi mondiale. È controproducente insistere sulla semplice riduzione dei costi e sull’aumento delle entrate, misure che hanno il solo effetto di sottrarre parte della ricchezza disponibile per consumi e investimenti. Questi due ultimi fattori mostrano un calo vertiginoso negli ultimi anni e si è venuta a creare una spirale negativa di cui non vedo la fine: meno soldi per consumi e investimenti che porta ad un calo della produzione industriale che a sua volta porta a meno occupazione e quindi ad ancora meno soldi per consumi e investimenti. Una via d’uscita sarebbe il trovare uno sfogo nel commercio internazionale, ma anche questa strada al momento è sbarrata, dato il clima economico a livello mondiale e la mancanza di una valuta locale da svalutare per rendere più facili le esportazioni.
Come giudica Consip?
Come una promessa non mantenuta. Nell’idea originaria di Visco non doveva essere una semplice stazione appaltante, come è adesso, ma fare anche un’attenta e completa attività di monitoraggio, supportando inoltre passo per passo la PA nei suoi acquisti di servizi. Avrebbe dovuto essere anche di stimolo per l’economia e le imprese private e in particolare per il settore del FM, sviluppandone l’industria. Ed era un approccio corretto, perché quello del Facility Management è un settore che, per le sue caratteristiche, difficilmente può esplodere se non riesce ad entrare compiutamente nel Pubblico. E il compito di uno Stato dovrebbe essere anche quello di stimolare la crescita dell’industria, non di contrattare con essa per ottenere un prezzo più vantaggioso per sé, che può essere il compito di una semplice stazione appaltante.
Per cui Consip ha tradito l’idea da cui è nata. E non sono nemmeno tanto sicuro che riesca effettivamente a far ottenere dei semplici risparmi alle Amministrazioni.
Perché?
Perché Consip assicura uno sconto di una certa percentuale su di un listino prezzi, ma la PA che acquista il servizio in base alla convenzione Consip non ha alcuna garanzia di risparmiare effettivamente rispetto a prima. Manca una serie storica dei costi che possa dare questa indicazione.
In definitiva, cosa dovrebbe fare la PA per mettersi nelle condizione di ricevere davvero il FM?
Come già detto, un’evoluzione culturale. Deve affidarsi senza remore e inutili timori al mercato, accettando di tenere al proprio interno solo una funzione di controllo per alcuni parametri essenziali, e non, ad esempio, sull’intero processo che per la maggior parte dei servizi è un’inutile spreco di risorse. Deve poi investire sui progetti e ripensare in maniera completa la propria organizzazione interna, rendendola davvero efficiente, istituendo la figura del Facility Manager ed eliminando tante altre funzioni che semplicemente tolgono spazio d’azione alla società di FM e appesantiscono inutilmente ogni processo.