Project Financing: la grande soluzione dimenticata.

Data di pubblicazione: 24 GIU 2013
Il Project Financing sembra portare con sé la risposta a molteplici problemi: dare opere nuove alla collettività senza bisogno di grandi investimenti pubblici, fornire linfa vitale ad un'economia in crisi e produrre occupazione. Eppure in Italia lo usiamo poco. Vediamo perché con il professor Fabio Amatucci dell’Università Bocconi.

di Mariantonietta Lisena


Anche in un momento in cui le Pubbliche Amministrazioni hanno dovuto ridurre drasticamente ogni possibilità di finanziare opere, lo strumento del Project Financing non riesce a trovare in Italia lo spazio che invece ha all’estero. Ciò malgrado tale strumento sembri fatto apposta per risolvere diversi problemi attuali del nostro Paese: creare opere pubbliche utili a tutta la comunità e allo stesso tempo generare opportunità per le imprese e posti di lavoro.
Per comprendere quali ostacoli impediscano un maggiore impiego del Project Financing nel nostro Paese ci siamo rivolti a un grande esperto della materia, il professor Fabio Amatucci, docente presso Università del Sannio e CERGAS Università Bocconi.

Come funziona, in breve, questo strumento?

Il primo passo spetta alla Pubblica Amministrazione, che crea un bando di concessione e gestione di una determinata opera pubblica e apre quindi una gara. I partecipanti saranno una serie di Associazioni Temporanee di Impresa. Chi tra queste si aggiudicherà la gara dovrà progettare e realizzare la struttura a proprie spese, utilizzando in parte i capitali di rischio delle aziende che la compongono e in parte (circa il 70-75%) il finanziamento di una banca. Come compenso avrà la gestione dell’opera per circa 20 -30 anni. Qui però bisogna subito fare un distinguo. Nel caso di opere come possono essere i centri sportivi, le piscine, i musei o anche i cimiteri il privato gestisce direttamente anche l’attività principale, ha un contatto diretto con l’utenza ed è dai contributi di quest’ultima che trae il margine di profitto.
Nel caso di opere definite “ad alto utilizzo delle Pubbliche Amministrazioni”, come ad esempio le strutture sanitarie, la gestione è invece parziale: il privato non entra nel core business e si limita a gestire le attività commerciali presenti nella struttura e tutta la parte relativa ai servizi. Inoltre riceve dalla PA un “canone di disponibilità” mensile per l’utilizzo della struttura.

Quest’ultimo caso è quello di strutture dotate di un core business particolare?

Più che altro si tratta di opere relative a un’attività che spetta alla PA. Abbiamo già fatto l’esempio delle strutture sanitarie, ma pensiamo anche ai tribunali, alle carceri, alle caserme, ecc. In tutti questi casi è la Pubblica Amministrazione a occuparsi del core business. Il caso dell’ospedale è comunque abbastanza esemplare: il privato non entra nella cura del malato e non percepisce direttamente un pagamento dall’utenza. Quest’ultima versa i suoi contributi all’ASL e sarà questa a remunerare il privato grazie al canone di utilizzo.

Nel caso di un Project Financing per una struttura come un centro sportivo perciò il privato ha più libertà d’azione.

Certo, si può dire che sia più padrone del suo destino e può dare maggior spazio alla sua fantasia e intraprendenza. Non è una libertà assoluta comunque; in fondo si tratta sempre di un’opera pubblica e quindi deve essere tutto dichiarato in sede di gara. Nell’offerta ogni ATI dovrà dichiarare quali sono i suoi piani per la struttura lungo tutta la durata del progetto e quali tariffe, servizi e attività verranno offerti. La Pubblica Amministrazioni valuterà ognuna di queste offerte e sceglierà quella che garantisce le migliori condizioni per la collettività sia in termini economici che di qualità del servizio.  
Vediamo più nel dettaglio chi sono gli attori di un Project Financing.

In primo luogo il committente, ovvero la PA, che di solito è rappresentata da un Comune o una Provincia. Dall’altro lato, quello del privato, abbiamo un’Associazione Temporanea d’Impresa che di solito comprende il costruttore, le società di FM e i fornitori di servizi oltre al soggetto che si occuperà della gestione del core business dell’opera (a meno che non spetti alla PA). Questa ATI partecipa alla gara con una sua offerta molto dettagliata. Il terzo attore è l’istituto di credito. Questo ha un rapporto diretto con l’ATI, non con la Pubblica Amministrazione e, come già accennato, si occuperà di finanziare circa il 70-75% del capitale necessario a realizzare l’opera.
L’ATI che si aggiudica la gara diventa una Società di Progetto, acquisendo una personalità giuridica e diventando la responsabile unica del progetto.

Qual è il vantaggio che ognuno di questi tre attori principali trae dall’operazione di Project Financing?

La Pubblica Amministrazione può ottenere un’opera utile alla collettività in un momento in cui non ha né le risorse per fare un investimento, né la possibilità di indebitarsi. Disponesse di ampia facoltà di debito, infatti, potrebbe comunque investire direttamente chiedendo un mutuo e realizzare quindi l’opera in proprio. Ricorrere a un privato poi garantisce di solito una migliore progettazione e qualità complessiva dell’opera, dato che la Società di Progetto privata sarà composta da aziende altamente specializzate.
Vi sono anche casi in cui l’opera da realizzare si prospetta molto remunerativa e in tal caso le ATI che partecipano alla gara possono (o devono, a volte) presentare un’offerta che includa anche un canone da versare direttamente alla PA. La norma infatti prevede che il soggetto privato debba ricevere un’equa remunerazione dalla gestione dei servizi rispetto alle condizioni di mercato. Se per una determinata opera la remunerazione si prospetta particolarmente vantaggiosa, consentendo quindi tariffe più alte di quelle considerate eque, il bando può prevedere anche una quota che il privato dovrà versare alla PA. Si tratta di un caso raro, ma accade con una certa frequenza nel campo delle energie rinnovabili, operazioni che si rivelano molto redditizie grazie alla presenza degli incentivi statali.

Come sono invece gli equilibri dal lato dell’offerta privata? Nel Regno Unito ad esempio vediamo spesso dei Project Financing cui l’attore forte è una Società di FM che ha al suo interno un costruttore e che va a cercare sul mercato una società specializzata per la gestione del core business dell’opera da realizzare. È un modello replicabile in Italia?

Sulla carta, certamente. La norma lo consente, come consente tanti altri modelli di diverso tipo. Potrebbe anche presentarsi in gara solo il gestore, vincerla e poi trovare sul mercato il costruttore e le società di FM.
Il modello anglosassone perciò in teoria è assolutamente replicabile anche da noi. In realtà l’unico vero vincolo per una società di FM che volesse partecipare come primo attore a un Project Financing è l’obbligo di selezionare il costruttore tramite una gara. Non può sceglierlo direttamente, dato che in pratica si sta sostituendo alla PA e quindi deve sottostare agli stessi vincoli relativi ai contratti che regolano l’attività degli enti pubblici. Ma a parte questo non avrebbe altre limitazioni di sorta.

La realtà però è diversa e il modello anglosassone da noi non viene attuato.

Esatto. E questo perché la situazione italiana è un po’ diversa rispetto a quella di altri Paesi europei. Da noi gli equilibri, in un’operazione di PF, sono sbilanciati a favore delle banche. Sono loro, a conti fatti, ad avere il maggior impatto sulle sorti di un’operazione di Project Financing.
Va anche ricordato al proposito che la legge che attualmente regola il Project Financing in Italia è del ’98, si tratta di una modifica della legge Merloni ed è stata molto influenzata dalla volontà delle banche. I dieci articoli della legge che interessano in maniera diretta il Project infatti vennero stilati da una commissione del ’95 presieduta dall’ABI. Quegli articoli nel tempo sono stati rinnovati e modificati, ma la loro essenza, quella che regola la procedura di gara, è rimasta la stessa.
Pensiamo ad esempio all’obbligo per l’ATI vincitrice della gara di costituire una Società di progetto entro un certo limite di tempo: tale norma serve a separare giuridicamente questo consorzio di imprese dai suoi singoli componenti e costituisce una forte garanzia per le banche.

In che modo?

Perché svincola le sorti del progetto da quella dei suoi attori. Se una delle aziende che partecipa alla Società di progetto dovesse fallire, il tribunale non potrebbe rivalersi sull’opera realizzata e quindi l’istituto di credito non vedrà compromessa la sua possibilità di recuperare il capitale.

Qualcosa però in questo meccanismo non sembra funzionare come dovrebbe.

In effetti, malgrado le garanzie, le banche sembrano molto restie a partecipare a questo tipo di progetti. Il motivo principale è che, almeno in Italia, le banche sono abituate a finanziare solo sulla base di garanzie reali, sulla certezza di potersi rivalere sul capitale o sul patrimonio nel caso il progetto fallisca. Nel caso del Project Financing questa possibilità manca: il finanziamento avviene nei confronti di un’opera che ancora non esiste; inoltre la banca ha rapporti diretti solo con la Società di progetto, che però non ha la proprietà dell’opera realizzata, perché questa resta alla Pubblica Amministrazione che l’ha commissionata. La banca non ha perciò il tipo di garanzie cui è abituata. Preferisce allora finanziare direttamente la Pubblica Amministrazione secondo una forma di investimento più tradizionale. È una questione culturale perciò: la banca italiana ha una scarsa vocazione imprenditoriale, tanto che molte operazioni di Project Financing in Italia sono state realizzate grazie all’apporto di banche straniere, più abituate a compiere valutazioni e a finanziare progetti che ritiene validi anche in assenza di garanzie reali.
Le nostre banche preferirebbero finanziare solo Project Financing che comportino una fideiussione della PA, cosa che va a compromettere l’essenza stessa di questa modalità di progetto. Tanto più che, se queste devono essere le condizioni per realizzare un Project, alla Pubblica Amministrazione conviene piuttosto ricevere un finanziamento diretto da parte della banca e realizzare il progetto in proprio: l’impatto sul bilancio è identico e la PA può ottenere un costo di finanziamento più contenuto rispetto a quello di un soggetto privato.

Quale suggerimento darebbe allora? Cosa cambierebbe nella norma che regola il PF in Italia?

Credo che la legge non abbia alcun problema. Dal punto di vista normativo il nostro modello è molto simile a quello di altri Paesi comunitari, come la Francia e il Portogallo, dove il Project funziona bene.
Ciò che cambierei è la cultura.
In Portogallo, ad esempio, il numero medio di ATI che si presentano a una gara di Project Financing è di 6,2. Da noi è di 1,2. Non c’è perciò reale competizione né vera possibilità di negoziazione. Il nostro è un mercato dell’offerta che da questo punto di vista è fortemente colluso, soprattutto nel settore delle costruzioni: vi sono pochi attori che tendono a spartirsi le opere senza competere in maniera diretta. L’altro grande problema riguarda il lato della domanda: le PA sono molte volte carenti nel creare i piani di fattibilità, per cui spesso danno l’avvio a dei Project Financing senza aver spiegato al mercato quali sono i reali elementi di convenienza e cosa davvero vuole ottenere dall’opera che sta per commissionare. Molti bandi perciò risultano superficiali o poco precisi.
Lo strumento del Project Financing in Italia paga perciò per un approccio sbagliato dei tre attori e per una scarsa credibilità istituzionale: le Pubbliche Amministrazioni hanno tempi di pagamento davvero troppo lunghi. Si parla in alcune Regioni di 800 giorni, in alcuni casi si può arrivare addirittura al doppio. Questo chiaramente scoraggia molti privati, anche perché la banca vuole comunque essere ripagata del suo finanziamento secondo scadenze strettamente mensili.

Il quadro che dipinge non è molto incoraggiante.

Me ne rendo conto, ma non si possono ignorare dati che mostrano come l’80% dei di Project Financing finiscano per fallire. Ma ripeto, è un problema culturale, lo strumento in sé ha tutte le potenzialità per portare gli stessi ottimi risultati che sa garantire all’estero.
La questione del ritardo nei pagamenti è davvero qualcosa su cui si dovrebbe intervenire immediatamente, tanto più che non è dovuta alla crisi. Vent’anni fa i ritardi erano gli stessi, quindi si tratta di un problema strutturale. Il PF per funzionare ha bisogno di alcune condizioni che ora in Italia ci sono di rado e non in tutti i settori. È uno strumento nato per realizzare grandi progetti, mentre da noi paradossalmente funziona meglio sulle piccole opere: cimiteri, parcheggi, centri sportivi, piscine, ecc. Negli altri Paesi accade esattamente il contrario, soprattutto perché possono contare su di un mercato più fluido, in particolare nell’ambito delle costruzioni. Una volta modificate certe condizioni, non c’è motivo per cui il Project non possa diventare anche in Italia uno strumento in grado di portare grandi benefici.